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KELLEDDU BURRAI (n.
1943 - m. 17/10/2016)

Il cantastorie bittese che convinse Piero Marras.

Kelleddu: caposcuola della canzone satirica in limba?

di Omar Bandinu

La canzone satirica in limba sembrerebbe nascere a Bitti per opera di Kelleddu, ed in tempi non sospetti quando negli anni Sessanta una forte tendenza alla omologazione nazionale spingeva i sardi ad un forzato processo di rinnovamento culturale. Prima fra tutti è la musica che si fa complice di questo processo, quella musica chiamata “leggera” che veicola con sè i nuovi modelli culturali provenienti principalmente dal panorama anglosassone, primi fra tutti i Beatles, che si impongono attraverso i jukebox, la radio e la tv, diventando il simbolo di quella tanto attesa rinascita culturale ed economica di cui la Sardegna sembrava avere bisogno. Erano i tempi in cui i Barritas di Benito Urgu spopolavano con Whisky Birra e Johnny Cola, mentre un bittese chiamato Kelleddu solcava gli oceani del mondo con a bordo già tutti i suoi personaggi.

A Kelleddu Burrai, classe 1943, vizzichesu fin’a s’ossu, bittese fino al midollo, piace ironizzare sul suo passato. Un vita trascorsa a conciliare due aspetti contrastanti e a suo dire incompatibili della sua esistenza, quello dell’impiegato burocrate e quello dell’artista libero e squinternato. Poeta per vivere e impiegato per campare, ha attraversato il mondo in lungo e in largo da imbarcato in marina in veste di segretario del comandante, a una mano la macchina da scrivere e all’altra la chitarra. In questi viaggi il Nostro ha conosciuto realtà nuove e così diverse da quella che fino ad allora era stata la sua unica esperienza, quella del microcosmo bittese in cui era nato, cresciuto e probabilmente destinato a tornare. Profondo conoscitore dell’animo umano, dei vizi e delle virtù de sor vizzikesos (soprattutto i vizi), ha costruito i suoi personaggi plasmandoli dalla realtà de sa idda (il paese), attraverso un’ attenta analisi dei tipi locali che incarnano i vizi, le debolezze, le paure, i desideri più bassi e reconditi di tutti noi. I testi delle sue canzoni sono spesso allusivi, mai volgari; il forte uso delle metafore mutuate dal mondo agro-pastorale richiamano una dimensione quotidiana dove il passato sembra rivivere nel presente. Il costante ricorso ai diccios (i detti popolari) si affianca alla creazione di slogan e locuzioni diventati a loro volta di uso comune, come per esempio a ci esci (equivalente grosso modo a “esci dai piedi”) o a istare a irvarios (comportarsi in maniera demenziale).

Nella scelta dei soggetti sembrerebbe esserci un filo conduttore con quella poesia di tradizione orale che ha divertito generazioni di bittesi e che aveva come scenario il quartiere povero di Cadone abitato da sos remitanos, i reietti e i nullatenenti ma altrettanto scaltri e creativi da far impallidire un napoletano, resi immortali dal poeta illetterato Remunnu ‘e Locu.

“I soggetti delle mie canzoni sono molto realistici e anche se io li presento in forma di caricatura sono tanto comuni…e ci sono familiari…” dice l’intervistato “…sono così vivi e autentici da essere possibili nella realtà… è facile che si personifichino in qualche nostra conoscenza. Sono personaggi di una drammaticità e patetismo estremo” continua “che vivono con dolore la loro condizione. Non dovrebbe esserci niente da ridere… al contrario dovrebbero farci piangere”.

E qui sta tutta la forza della satira e dell’humor del nostro chansonnier. Dietro questi personaggi si celano i fantasmi delle nostre paure, ossessioni, debolezze che Kelleddu esorcizza abilmente attraverso la sua satira. Sa cuentera, su disisperatu, Bajana, su mandrone, taka ocos, su carasatu, sono la pettegola, il disperato, la zitella, lo sfaticato, l’istigatore e l’alcolizzato, che rappresentano e incarnano una condizione esistenziale infelice e aberrante da cui l’uomo cerca di sfuggire. La satira diventa uno strumento di difesa, una medicina per tutte le nostre angosce e paure più recondite. Non ci resta che riderne, quindi, del timore di non realizzarsi e non trovare una compagno/a della nostra vita, di diventare apatici e annichilirsi nella spirale dell’alcool, derisi da tutti, in preda all’accidia, all’irritabilità e infine alla più totale disperazione.

Kelleddu inoltre, non ama la poesia aulica e amorosa perché troppo scontata e banale, non ama sas lunas giaras, s’amore e coro le suggestioni bucoliche e il romanticismo smielato che ancora oggi dominano gran parte delle poesie e delle canzoni in limba (e non), ca sono cosas chi achene intennere male sono cose che lo fanno stare male. Preferisce usare la sua lente antropologica e rivolgerla all’uomo tout court, non alla sua dimensione individuale bensì collettiva e sociologica, in quanto parte di una comunità che tutto osserva, controlla, censura e sanziona. I suoi personaggi sono il frutto di una creazione collettiva perché plasmati dalla comunità stessa che con la sua azione attribuisce ruoli e funzioni agli individui. Kelleddu li dipinge e racconta spesso da una prospettiva esterna, visti con gli occhi de sa idda, che da entità astratta diventa un soggetto parlante che condiziona e giudica i suoi figli (sa idda narat, sa idda ischit, il paese dice, il paese sa).

Ma come nasce l’idea di scrivere in sardo, ed in un contesto così particolare, in una nave?

“Ho conosciuto dei musicisti pugliesi che traducevano e cantavano nel loro dialetto i successi internazionali dell’epoca, e ho pensato che la cosa avrebbe potuto funzionare anche con la lingua sarda. Ero consapevole delle difficoltà che avrei dovuto affrontare, non solo di tipo culturale ma anche tecnico perché la lingua sarda è come un fico d’india che per assaporarne il frutto bisogna saper sbucciare facendo attenzione alle spine.”

Kelleddu come il famoso pianista della leggenda, inizia così a deliziare il suo pubblico durante le serate e le interminabili traversate oceaniche coniando un suo stile personalissimo, che unisce la lingua sarda a modelli musicali di matrice extraisolana ma mai di tipo tradizionale.

Non sei mai stato tentato di usare matrici musicali sarde nelle tue canzoni?

“Ho sempre avuto un rispetto particolare per la musica sarda, e un operazione tale sarebbe stata come una dissacrazione. Il blues, il rock, avevano un effetto contrastante con il testo in sardo e questo risultato mi ha aiutato a dare un colore originale alle mie canzoni. Le contaminazioni musicali sono operazioni difficili e il più delle volte i risultati sono deludenti, questo a causa di approcci superficiali con la musica sarda. Usare il canto a tenore in una canzone per esempio è un’operazione molto difficile e rischiosa e anche jazzisti del calibro di Ornette Coleman e Lester Bowie hanno fallito clamorosamente.”

Come reagiva la gente all’uso del sardo nelle tue canzoni? Come è stata accolta questa novità?

“Negli anni da imbarcato, malgrado nessuno inclusi e i miei musicisti “continentali”, capisse un’ acca di quello che cantavo, il successo è stato discreto. Forse perché la gente apprezzava l’originalità della mia scelta, la freschezza e il brio delle mie musiche, nonché la mia personalissima interpretazione. Nei concerti ero solito alternare le mie canzoni con momenti di cabaret vero e proprio, barzellette, sketch, gag spesso totalmente improvvisate. Questa formula da showman bene collaudata l’ho poi riproposta in Sardegna, quando al mio ritorno ho iniziato a cantare con i Nottambuli, lo storico gruppo di Bitti nato negli anni 60 e allora molto conosciuto e apprezzato. In seguito sono approdato alla radio regionale, in una trasmissione intitolata “Take off” condotta da Piero Marras che allora si chiamava Piero Salis, dove il pubblico votava i gruppi attraverso delle cartoline postali. Quella volta superammo i Barritas con il brano Zizzu chin Zizza, fu un successo inaspettato e il pubblico continuava a chiamare in radio per richiedere la canzone. Mi ricordo che Piero Marras, che allora cantava solo in italiano, non era per nulla convinto della scelta di cantare in lingua sarda, ma presto si ricredette diventando tra quelli che più mi hanno incoraggiato e spronato a proseguire nella mia strada.”

Hai in cantiere qualche progetto?

“Vorrei ripubblicare in formato CD i miei due album, usciti solo in cassetta e mai più ristampati da allora, e che la gente continua a richiedere. La cosa curiosa e che molte persone, anche giovanissime, citano a memoria i miei brani senza mai averne ascoltato la versione originale, grazie a una specie di trasmissione orale del nuovo millennio che ha fatto fare alle mie canzoni il giro di tutti gli spuntini della Sardegna.”

(specchietto)

Discografia

Due sono i lavori discografici pubblicati da Kelleddu. Il primo intitolato Lakanas (chiacchiere), esce nel 1987 è suonato dai Nottambuli (Paquito Farina, Antonello e Ernesto Sanna, Pascaleddu e Giovanni Porcu, John Ferry,) e contiene le hits più gettonate come Zizzu chin Zizza , Su disisperatu , Sa ballata de sa Regione, Sa cuentera, Ziu Pascale. Prastika è il secondo album musicalmente più elaborato, esce nel 1989, è suonato dai Nottambuli e le musiche sono state composte e arrangiate da Antonello Sanna e Paquito Farina. Il lavoro contiene otto brani tra i quali ricordiamo prastika, su mandrone, su tangu, baiana e sa kratea.

Sito web dove trovare tutte le canzoni ei testi di Kelleddu http://www.myspace.com/kelleddu
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